La plastica ormai sta diventando un problema a livello mondiale;  ogni anno si producono 300 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica per la richiesta sempre maggiore da parte dei consumatori (piatti, bicchieri, posate usa e getta sono quelle più vendute e quindi quelle più prodotte dalle aziende).

Di tutta questa produzione solo il 15 % viene riciclato, la restante parte va agli inceneritori e la frazione scartata va in discarica…Ma perché?

Il PET delle bottiglie e l’HDPE (polietilene ad alta densità) dei flaconi di detersivo sono i più riciclati, mentre il polipropilene di tubi e cavi elettrici e il polistirene sono ben poco recuperati (dall’1% al 21%) nonostante sia una delle plastiche meglio riciclabili. Perché? Perché non hanno mercato! Il polistirolo è facilissimo da riciclare ma il riciclato costa più del nuovo e quindi perché comprarlo?

Ad una richiesta sempre maggiore di imballaggi e altri oggetti e utensili in plastica, corrisponde una quantità sempre maggiore di rifiuti. Il problema è che la plastica è il prodotto sintetico a più lunga conservazione, si degrada completamente solo in centinaia di anni.

Anche l’ISPRA nella relazione ultima sullo Stato dell’ambiente,  affronta il tema dei rifiuti come parte di un concetto più ampio di economia circolare. In questo contesto, il riferimento fondamentale è la Comunicazione della Commissione Europea, “Un nuovo Piano d’azione europeo per un’economia circolare per un’Europa più pulita e più competitiva”, varato dalla Commissione europea nel marzo 2020 e che costituisce una delle principali componenti per l’implementazione di quanto previsto dalla Comunicazione della Commissione con il Green Deal europeo (dicembre 2019) che ha posto le basi per un’economia sostenibile.  Ebbene, alla luce di quanto appena descritto nasce l’esigenza di un alternativa: l’approvazione della legge che ha imposto il pagamento per l’utilizzo di shopper biodegradabili e compostabili dal 1° Gennaio 2018, secondo le indicazioni della direttiva 2015/720 dell’Unione Europea, è solo un primo passo verso la riduzione dell’uso di plastica da imballaggio.

Un modo per rispettare le famose  quattro R: Ridurre- Riusare- Riciclare- Recuperare è quello di produrre la plastica a partire da materie prime organiche quali amido di mais, di riso, aceto, miele ecc … creando così le famose Bio-plastiche: Plastiche biodegradabili che non essendo prodotte a partire dal petrolio, hanno  meno impatto sull’ecosistema, ma per essere prodotte, però, richiedono enormi quantità di materie prime. Il primo svantaggio che molti di noi devono fronteggiare è la difficoltà nel distinguere quale materia plastica o bioplastica sia biodegradabile, compostabile o riciclabile. Per questo, infatti, molte bioplastiche vengono differenziate in modo sbagliato. La scorretta differenziazione o la mancanza di luoghi appropriati in cui convogliare tali rifiuti diminuisce nettamente il valore dei potenziali vantaggi insiti in questi materiali. Un ulteriore svantaggio riguarda la coltivazione di materie prime rinnovabili e di biomassa, che rischia di incidere molto sulla carbon footprint.

Di contro a queste, l’ultima novità risiede in aziende che hanno fatto degli scarti alimentari una vera risorsa per la produzione di Bioplastiche. Si tratta dei prodotti di scarto delle industrie agroalimentari che stanno diventando sempre di più un peso in termini di stoccaggio e smaltimento per molti operatori del settore.  Un esempio è l’azienda ORANGE FIBER, unico brand a produrre il primo tessuto sostenibile da scarti di agrumi (solo in Italia vengono prodotti 700.000 tonnellate di sottoprodotto agrumicolo).  Per frutta e verdura il discorso è molto complesso: spesso questi prodotti vengono considerati “scarti” quando il consumatore (o il rivenditore) decide che non sono più accettabili. Per esempio, secondo dati FAO, il 3-13% delle patate prodotte e raccolte nel Regno Unito non ha mai raggiunto il cliente ed è stata scartata a livello del supermercato. Ci sono poi gli scarti di tipo caseario (circa 29 milioni di tonnellate ogni anno in Europa), quelli derivati dagli oli alimentari, la carne, le uova e i pesci, ai quali si devono aggiungere gli scarti domestici (oltre 30 milioni di tonnellate di rifiuti provengono ogni anno dalle cucine cinesi) e quelli del settore agricolo. Valorizzare l’ultima fase dei processi produttivi, e quindi fare degli scarti una risorsa, riaccende la speranza di raggiungere più di uno degli obiettivi previsti nell’Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile.

Dott.ssa Elena Peluso

Esperta di Sicurezza Alimentare

Formatrice HACCP e Consulente 626School srl