” E’ in corso un forte dibattito in materia di Vaccini anti Covid19 , Giancarlo D’Andrea , Direttore di 626School e Coordinatore Nazionale di FederFormatori ha chiesto all’Avv. Rolando Dubini  un contributo in merito . L’Avv.  Dubini ci ha inviato questo suo intervento che pubblichiamo ringraziandolo “

Test sierologici, tamponi, vaccini e aspetti sanitari della valutazione del rischio di contagio COVID-19: ogni decisione deve avvenire in collaborazione ed essere avvallata  in modo documentato il Medico competente (art. 25 D.Lgs. n. 81/2008).

di Rolando Dubini, avvocato penalista del Foro di Milano, cassazione

  1. Aspetti generali

La sorveglianza sanitaria e la valutazione degli aspetti sanitari di tutti i rischi durante il lavoro è di competenza esclusiva del medico competente, la definizione delle campagne di test sierologici, tamponi e vaccinazioni va concordata col il professionista della sanità, che ha sempre l’ultima parola in merito.

E’ altamente sconsigliato dar credito a pareri fuorvianti di chi improvvisa competenze che non possiede, per legge le competenze sanitarie nei luoghi di lavoro sono di esclusiva competenza del Medico Competente.

  1. Protezione dal Rischio da agente bilogico: SARS-COV2, virus del 3° gruppo.

Gli agenti biologici vengono  classificati in quattro gruppi, graduati secondo la loro crescente pericolosità in relazione al rischio di infezione, alla gravità della malattia provocata e alla disponibilità o meno di efficaci misure di profilassi, di controllo della sua diffusione e di idonee terapie.

Per agente biologico si intende qualsiasi microrganismo, cellulare o meno, in grado di riprodursi o trasferire materiale genetico che nel caso di SARS-COV2 è costituito da RNA. Vengono individuati nel gruppo 4, il più pericoloso, gli agenti biologici che possono provocare malattie gravi e costituire un serio rischio non solo per i lavoratori ma anche per la comunità. Il SARS-COV2  inizialmente stava per essere inserito nel gruppo  4, ma con la modifica  del Decreto Legislativo 81/2008, in applicazione della Direttiva CE 2020/739 del 3 giugno 2020, è stato classificato come appartenente al gruppo 3.

La normativa di tutela di cui al D.Lgs. n. 81 in materia di rischio da agenti biologici  si applica con particolare rigore nelle attività in cui si opera deliberatamente con questi agenti pericolosi, come ad esempio nei laboratori di ricerca e di analisi, con misure di prevenzione di rigore direttamente proporzionale al gruppo di appartenenza dell’agente biologico.

Ma la legge tutela anche gli addetti ad attività lavorative che, pur non comportando la deliberata manipolazione degli agenti biologici, possono implicare il rischio di esposizioni pericolose dei lavoratori agli stessi.

Tra gli ambiti lavorativi in cui è riconosciuta una potenziale esposizione a rischio biologico figurano le attività legate ad industrie alimentari, agricoltura, attività nelle quali vi è contatto con gli animali e/o con prodotti di origine animale, servizi sanitari comprese le unità di isolamento e post mortem, laboratori clinici, veterinari e diagnostici, esclusi i laboratori di diagnosi microbiologica,  impianti di smaltimento rifiuti e di raccolta di rifiuti speciali potenzialmente infetti, impianti per la depurazione delle acque di scarico, cui possiamo  aggiungere chi lavora a sportelli e casse con elevato contatto col pubblico ecc..

  1. Gli obblighi del Datore di Lavoro, e del Medico Competente: valutazioni, misure protettive, vaccinazione.

Nel caso del rischio biologico, al pari di tutti gli altri rischi presenti durante il lavoro, come prescritto dal D. Lgs. n. 81/2008, gli obblighi principali del datore di lavoro sono quelli di valutare l’esposizione a cui sono sottoposti i lavoratori, utilizzando i metodi INAIL o di altri Enti scientificamente attendibili,  organizzare il servizio di prevenzione e protezione aziendale in modo tale da fronteggiare anche i rischi biologici, programmare l’adozione delle misure di prevenzione, che vanno dal semplice uso di dispositivi di protezione individuale fino alla predisposizione di misure di contenimento strutturali, sulla base di protocolli, procedure e istruzioni adeguate e vincolanti per tutti,  formare e informare i lavoratori, procedere alla sorveglianza sanitaria degli esposti tramite il medico competente specialista in Medicina del Lavoro o comunque munito dei requisiti di legge, che sarà di fatto e di diritto il regista della tutela sanitaria dei lavoratori per quanto attiene il rischio da agenti biologici.

L’articolo 279 comma 2 del Decreto n. 81/2008 prevede l’obbligo del datore di lavoro, a seguito di indicazione specifica del medico competente, di adottare misure protettive particolari, come il vaccino, nei confronti dei lavoratori per i quali si richiedono misure speciali di protezione.

Tra queste misure sono altresì previsti l’allontanamento temporaneo o permanente del lavoratore da una specifica lavorazione a rischio, adibendolo ad altre mansioni, ad esempio in modalità smart working, lavoro agile, telelavoro,  didattica a distanza, back office, etc..

Quando ciò non sia motivatamente possibile, l’impossibilità di continuare il rapporto di lavoro per impossibilità della prestazione lavorativa il datore di lavoro ha il diritto di recedere dal contratto di lavoro  per giusta causa.

Nel caso del rischio di contagio da COVID-19, tutti i lavoratori della sanità, delle residenze per anziani dei reparti Covid-19 sono esposti ad un rischio specifico professionale, mentre quelli operanti nei servizi aperti al pubblico sono da considerarsi esposti a un rischio biologico generico aggravato di contrarre l’infezione e, seppure  in un numero limitato di casi, sviluppare la malattia.

In Sanità, al di fuori dei reparti Covid-19, il rischio generico aggravato può elevarsi fino a diventare  rischio biologico specifico in relazione a manovre diagnostiche, assistenziali e terapeutiche proprie delle mansioni a cui i lavoratori sono adibiti o anche per la tipologia di pazienti con cui hanno contatto (es. reparti di malattie infettive, unità Unità Speciali di Continuità Assistenziale USCA deputate all’assistenza territoriale per pazienti COVID, pronto soccorso, ambulanze e 118).

I lavoratori che non lavorano in solitario hanno, in misura più o meno intensa a seconda del settore di attività, tre punti di caduta del rischio di contagio:

1) verso se stessi,

2) verso gli utenti/pazienti/colleghi/clienti con cui entrano in contatto e

3) verso i propri familiari.

Tutto ciò premesso occorre chiedersi se il Datore di lavoro, sulla scia della valutazione decisiva e imprescindibile del rischio sanitario da parte del Medico Competente (trascritta nel DVR, rischio biologico), possa imporre alla fascia di lavoratori più esposta l’obbligo di inoculazione del vaccino antiCovid-19 (ma il discorso vale anche per altri tipi di rischio biologico e di vaccino).

Il vaccino, in base alla scienza medica e a tutte le istituzioni sanitarie di vertice degli Stati, rappresenta la misura fondamentale di prevenzione dalla malattia provocata dal virus SARS CoV2, e fatte salve le controindicazioni  (così come indicano nelle Linee guida dell’ISS, che viene affrontata con una verifica preliminare alla somministrazione vaccinale), la vaccinazione stessa è una pratica ragionevolmente sicura,  come confermano, oltre alla sperimentazione effettuata,  i primi dati relativi ad alcuni milioni di vaccini già inoculati nel mondo.

C’è chi ritiene che  nella maggioranza dei comparti lavorativi  il lavoratore che non si sottopone alla vaccinazione causa principalmente un aumento del suo solo rischio personale di contrarre la patologia da Covid-19, ma la valutazione di tale rischio, della sua dimensione e dei mezzi obbligatori per limitarla,  non spetta al lavoratore, ovviamente, ma invece è un obbligo legale del datore di lavoro, che nel caso del rischio sanitario deve obbligatoriamente realizzarla in collaborazione obbligatoria (penalmente sanzionata) col  Medico Competente dell’azienda.

In alcuni settori al rischio personale si aggiunge il rischio di contagiare i pazienti assistiti, oppure gli ospiti,  che peraltro possono essere soggetti fragili o immunocompromessi e quindi più facilmente infettabili: si pensi in tal senso agli operatori sanitari dei vari reparti ospedalieri e ai lavoratori delle case di riposo o residenze sanitarie assistite (RSA).

Peraltro c’è il rischio di subire il contagio da parte degli operatori di svariati servizi territoriali pubblici, quali, ad esempio, i SERT, gli impiegati delle poste, i fattorini  ecc

Come è noto la campagna vaccinale di massa in corso da la priorità ai lavoratori del comparto sanitario e assistenziale, settori ove la probabilità di contrarre il COVID è più elevata: personale delle  RSA, nel 118, servizi di anestesia e  rianimazione,  pneumologie e medicina generale, pronto soccorso, radiologia e  servizi di malattie infettive ospedalieri, servizi territoriali, quali USCA (già prioritari per i test diagnostici con tamponi molecolari) e servizi dei Dipartimenti di Prevenzione che effettuano attività di monitoraggio e controllo su casi e contatti o in attività produttive.

Il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire la salute dei propri dipendenti, e di tutte le persone presenti sul luogo di lavoro, ai sensi del D.Lgs. n. 81/2008 e dell’art. 2087 del Codice Civile (che sancisce l’obbligo datoriale della massima sicurezza tecnica, organizzativa e procedurale): per quanto  riguarda i rischi sanitari, ad esempio da agenti biologici,  il datore di lavoro dovrà, di concerto e con la collaborazione obbigatoria e decisiva  del medico competente (coinvolgimendo RSPP e  rappresentante dei lavoratori per la sicurezza RLS) ,  individuare nel vaccino, secondo quanto già previsto dagli organismi scientifici internazionali e nazionali e in conformità alla pianificazione disposta dalle autorità sanitarie nazionali, la misura necessaria e sufficiente (ai sensi dell’art. 279 del D. Lgs. n. 81/2008) idonea a proteggere nel luogo di lavoro tutte e persone presenti dal rischio di contagio derivante dalla diffusione incontrollata del virus SARS COV2, ed inserire tale misura nel Documento di Valutazione dei Rischi ( DVR ).

Simultaneamente a quanto previsto sull’adozione del vaccino nel DVR, il medico competente inserirà la vaccinazione anti-COVID nel proprio protocollo sanitario, in analogia a quanto avvenuto per la disposizione dei tamponi antigenici/molecolari in strutture sanitarie pubbliche e accreditate.

Quando ciò avviene, il lavoratore ha l’obbligo conseguente di sottoporsi agli accertamenti sanitari o vaccini previsti, a meno che non rientri nelle contro-indicazioni previste dall’ISS o documenti uno stato di immunità acquisita per precedente infezione da SARS-COV-2. Tale immunità ha peraltro una durata limitata, attualmente valutata in sei mesi.

L’articolo 20 del D.Lgs. n. 81/2008 è chiaro, in relazione agli obblighi del lavoratore:

Articolo 20 – Obblighi dei lavoratori

  1. Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro.
  2. I lavoratori devono in particolare:
  3. a) contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;
  4. b) osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale; (…)
  5. i) sottoporsi ai controlli sanitari previsti dal presente decreto legislativo o comunque disposti dal medico competente.

Sanzioni per i lavoratori  per la violazione dell’Art. 20, co. 2, lett. b), i): arresto fino a un mese o ammenda da 245,70 a 737,10 euro [Art. 59, co. 1, lett. a)]

  1. La vaccinazione e le conseguenze del rifiuto

Qualora il  lavoratore rifiuti di sottoporsi alla vaccinazione il medico competente, in base al protocollo sanitario che ha elaborato in precedenza, emetterà  un giudizio di inidoneità temporanea o permanente alla mansione (nel caso del Covid-19 in correlazione alla situazione epidemiologica).

A questo punto entra in gioco una precisa regola del D.Lgs. n. 81/2008:

Articolo 42 – Provvedimenti in caso di inidoneità alla mansione specifica

  1. Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6 [idoneità con limitazioni, inidoneità temporanea o permanente], attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.

Dunque il datore di lavoro ha l’obbligo legale di individuare una mansione che non  esponga al rischio il lavoratore, ove possibile, se non è possibile, viene meno il presupposto per la prosecuzione del rapporto di lavoro.  Contro tale giudizio è sempre possibile il ricorso, entro 30 giorni, da parte del lavoratore all’organo di vigilanza dell’ASL/ATS (servizio Sicurezza sul lavoro, che ha varie denominazioni a seconda della Regione), che potrà confermare, revocare o modificare il giudizio. Come anticipato, qualora sia impossibile adibire il lavoratore non vaccinato ad altre mansioni, si pensi all’infermiere.               Nell’impossibilità di essere adibito ad altre mansioni, si pensi all’infermiere, in caso di rifiuto della vaccinazione il datore di lavoro che non può più avvalersi della prestazione lavorativa del dipendente può ovviamente valutare l’ipotesi del licenziamento per giusta causa. Fatto salvo il fatto che attualmente i licenziamenti sono sospesi.

Nel caso di una infezione da COVID-19 contratta da un lavoratore, l’INAIL, come per le altre patologie da agenti biologici, la qualifica come  infortunio sul lavoro (eventualmente infortunio in itinere) e non come malattia professionale (l’unica eccezione a questa regola è la tubercolosi).

Il Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (D.P.R. n. 1124/1965. – T.U. INAIL), individua “gli elementi oggettivi” necessari affinché un evento possa essere configurato come infortunio sul lavoro:

  • la causa violenta;
  • l’occasione di lavoro;
  • la lesione come conseguenza dell’evento”.

La causa violenta, dispone il Testo Unico, “consiste in un evento che con forza concentrata e straordinaria agisca, in occasione di lavoro, dall’esterno verso l’interno dell’organismo del lavoratore, dando luogo ad alterazione lesive”: la causa violenta “rappresenta il fattore idoneo a distinguere l’infortunio sul lavoro dalla malattia professionale”.

Secondo la giurisprudenza di legittimità  la causa violenta, richiesta dall’art. 2 del D.P.R. n. 1124/1965 per l’indennizzabilità dell’infortunio sul lavoro, consiste “in un evento che con forza concentrata e straordinaria agisca, in occasione di lavoro, dall’esterno verso l’interno dell’organismo del lavoratore, dando luogo ad alterazioni lesive” (Cass., 29 agosto 2003, n. 12685); si tratta, cioè “di un fattore che opera dall’esterno, con azione intensa e concentrata nel tempo” (Cass., 14 gennaio 1987, n. 221). ovvero rapida.

La causa dell’infortunio è rilevante ai fini assicurativi se è esterna, in quanto connessa all’ambiente di lavoro, e rapida, ovvero concentrata “in un brevissimo arco temporale” (cfr. Cass., 20 giugno 2006, n. 14119).

La rapidità della causa del danno distingue l’infortunio sul lavoro dalla malattia professionale, che è, viceversa, causata da una “causa lenta”: “la nozione attuale di causa violenta comprende qualsiasi fattore presente nell’ambiente di lavoro, in maniera esclusiva o in misura significativamente diversa che nell’ambiente esterno, il quale, agendo in maniera concentrata o lenta, provochi (nel primo caso) un infortunio sul lavoro o (nel secondo) una malattia professionale” (Cass., 30 agosto 2010, n. 18852; Cass., 26 maggio 2006, n. 12559).

Da notare che è espressamente qualificata dalla legge come infortunio sul lavoro l’infezione carbonchiosa (art. 2, comma 2, D.P.R. n. 1124/1965).

La Corte Costituzionale poi, con sentenza 17 giugno 1987, n. 226, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 del D.P.R. n. 1124/1965 nella parte in cui non comprende tra i casi di infortunio sul lavoro anche l’evento dannoso da infezione malarica.

Era dunque inevitabile che nel caso di contagio da Covid-19  il legislatore si uniformasse alle stesse regole applicate ai casi di eventi infettivi e parassitari, che li configurano  come derivanti da causa violenta, e dunque infortuni  sul lavoro .

Già il testo Unico n. 51 del 31 Gennaio 1904, riordinando tutta la precedente normativa in materia di infortuni sul lavoro, estendeva la prima forma di tutela anche ad alcune lavorazioni agricole e sebbene conservasse ancora il carattere della contrattualità assicurativa, introduceva di fatto alcuni elementi indice di un iniziale Stato Sociale. Nel suddetto T.U. n. 51 / 1904, il legislatore indicava l’evento coperto dalla assicurazione con la formula: “…l’infortunio che avvenga per causa violenta in occasione di lavoro”. La dizione “causa violenta” veniva introdotta per la prima volta in questa normativa al fine di circoscrivere il risarcimento ai soli fatti derivanti da situazioni di rischio lavorativo, dovuti a causa accidentale e di rapida azione. In tal modo veniva ben differenziato l’Infortunio lavorativo dalla Malattia Professionale che, al contrario, era conseguenza inevitabile di determinate lavorazioni e proveniente da cause patogene ad azione lenta e progressiva.

L’assimilazione della CAUSA VIRULENTA di natura biologica con la CAUSA VIOLENTA, contemplata a pieno titolo nell’ambito delle cause determinanti un evento infortunistico lavorativo, era stata ammessa sin dal 1910 anche dalla Giurisprudenza della Corte di Cassazione di Torino la quale in una specifica sentenza aveva considerato infortunio lavorativo il CARBONCHIO manifestatosi in operaio addetto al trasporto di pelli . Né mancavano ulteriori pronunciamenti della Corte Medesima in epoche successive come confermato dalla sentenza del 31 Ottobre 1921, FFSS / Migliori, in cui affermava: “.. nella causa violenta è compresa anche la causa virulenta e che esiste infortunio ogni qual volta il lavoro abbia esposto l’operaio a quella causa”. La validità dello stesso principio era successivamente riconosciuta dal Legislatore dapprima nel R.D. n. 328 del 13 Maggio 1929 quindi nel citato art. 2 del T.U. n. 1765 del 17 Agosto 1935 allorché sanciva doversi considerare il CARBONCHIO

 

L’art. 42 del cosiddetto “ Decreto Cura Italia”, il DL n. 18/2020 convertito con modificazioni dalla legge n. 27 del 24 aprile 2020 sancisce il riconoscimento della tutela infortunistica nei casi accertati di infezione da Covid-19 in occasione di lavoro.

Ciò in quanto presuppone che la causa del contagio sia stata “violenta”, ovvero concentrata nel tempo (massimo un turno di lavoro), o avvenuta in occasione di lavoro o anche in itinere (ad es. contagio su mezzi di trasporto pubblici affollati nel tragitto tra l’abitazione e il luogo di lavoro).

Facciamo ora un passo avanti.

Nel caso in cui un lavoratore  rifiuti il vaccino anticovid, senza giustificazioni sanitarie certificate, in presenza dell’indicazione da parte del medico competente della necessità di sottoporsi a vaccinazione come requisito di idoneità alla mansione, previa dichiarata  messa a disposizione del vaccino da parte del datore di lavoro,  si pone il problema del riconoscimento Inail della malattia da COVID come conseguenza di infortunio sul lavoro e quindi all’indennizzo per l’inabilità temporanea, o permanente.

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l’orientamento giurisprudenziale maggioritario “sosteneva che l’occasione di lavoro di cui all’art. 2 del T.U. ricomprendesse tutte le condizioni socio-economiche in cui l’attività lavorativa si svolgeva e nelle quali fosse insito un rischio di danno per il lavoratore, indipendentemente dal fatto che tale danno provenisse dall’apparato produttivo o dipendesse da terzi o da fatti e situazioni proprie del lavoratore, con il solo limite del c.d. rischio elettivo”. Successivamente l’orientamento giurisprudenziale “ha esteso l’area dell’indennizzabilità dell’infortunio subito dall’assicurato all’ipotesi del rischio improprio, ossia quello non intrinsecamente connesso al disimpegno delle mansioni tipiche del lavoro prestato dal dipendente ‘ma insito in un’attività prodromica e strumentale allo svolgimento delle suddette mansioni e, comunque, ricollegabile al soddisfacimento di esigenze lavorative’ (Cass. civ., sez. lavoro, 14 ottobre 2015, n. 20718).

In definitiva “affinché l’infortunio sia indennizzabile da parte dell’INAIL, non è necessario che l’evento lesivo sia avvenuto nell’espletamento delle mansioni cui il lavoratore è tipicamente adibito, essendo sufficiente che lo stesso sia occorso durante lo svolgimento di attività strumentali o accessorie”. E da questo punto di vista l’occasione di lavoro crea “un’ulteriore linea di confine tra l’infortunio e la malattia professionale”: “per il configurarsi di quest’ultima non è sufficiente che l’evento lesivo sia semplicemente occasionato dall’attività lavorativa ma è necessario che quest’ultimo sia in un rapporto causale, o concausale, diretto con il rischio professionale”. E, nella situazione virale relativa alla pandemia da COVID-19, è “intuibile la complessità riscontrabile nel dimostrare l’origine professionale del contagio, data la manifesta difficoltà ad individuare l’esatto momento in cui lo stesso si è verificato, se in circostanze riconducibili all’attività lavorativa, ovvero alla vita privata”.

 

Veniamo poi alla “presunzione di origine professionale dell’evento lesivo per alcune limitate categorie di lavoratori”.

 

  • COVID-19: il presupposto dell’occasione di lavoro in via presuntiva

Con la circolare n. 13/2020 l’Inail introduce una “presunzione semplice di origine professionale del contagio da Covid-19 operante a favore di alcune categorie di lavoratori, sulla scorta del fatto che, su di essi, insisterebbe una maggiore esposizione al rischio in ragione delle particolari mansioni cui sono adibiti”.

Tale criterio della presunzione semplice “consente, a determinate condizioni, di ricomprendere nella protezione assicurativa casi in cui l’identificazione delle precise cause del contagio si presenti di difficile attuazione”.

 

La responsabilità per il danno da vaccinazione

La legge n. 210 del 25 febbraio 1992, prima fra tutte, riconosce a coloro i quali abbiano riportato una menomazione psicofisica permanente, in conseguenza della vaccinazione obbligatoria ex lege o per ordinanza dell’autorità sanitaria, un indennizzo da parte dello Stato.

Successivamente, la legge n. 299 del 2005 introduce un ulteriore indennizzo (di maggior entità) a sostengo della persona danneggiata a cause delle complicanze delle vaccinazioni obbligatorie, elargito “per la metà al soggetto danneggiato e per l’altra metà ai congiunti che prestano o abbiano prestato assistenza in maniera prevalente e continuativa” (art. 1, legge n. 299/2005).

Ancora il Decreto del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali del 21 ottobre 2009, stabilisce criteri per la formazione delle graduatorie finalizzate all’erogazione dei benefici. Il Ministero provvede alla corresponsione di un indennizzo aggiuntivo, nonché di un assegno una tantum di importo pari al 50% dell’ulteriore indennizzo per il periodo compreso tra il manifestarsi dell’evento dannoso e l’ottenimento del beneficio medesimo.

L’indennizzo previsto dalla legge n. 210 del 1992, comunque, non pregiudica al soggetto danneggiato dalla vaccinazione, il diritto di agire per la richiesta di ulteriori danni subiti, che presuppone, tuttavia, l’accertamento di una responsabilità, per dolo o colpa, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.

Il sistema della responsabilità civile poggia su due criteri di imputazione oggettiva e soggettiva (artt. 2043, 2049 e 2050 cod. civ.) che tuttavia presuppongono l’accertamento da parte dell’autorità giudiziaria.

Orbene, ai nostri fini, giova considerare la coesistenza del sistema del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. e dell’applicazione della legge n. 210 del 1192.

Occorre precisare, dunque, che il diritto all’indennizzo previsto dalla legge 210/1992 sorge solo a seguito dell’accertamento della sussistenza di un danno irreversibile, conseguente alla somministrazione del vaccino, si prescrive in tre anni e la domanda deve essere indirizzata alla A.s.l. di spettanza che a sua volta la trasmette alla commissione medica ospedaliera per un giudizio di competenza così come previsto dall’art. 4 della legge.

L’indennizzo è pertanto una somma di denaro predeterminata dalla legge che garantisce un equo ristoro, mentre il risarcimento ex art. 2043 cod. civ. presuppone la sussistenza di un fatto illecito e del nesso di causalità tra questo ed il danno.

L’indennizzo ha natura “assistenziale” ma non preclude la possibilità di agire giudizialmente per chiedere il risarcimento del danno subito ed i due strumenti risultano essere alternativi tra di essi (Cass. Civ., Sez. III, 12 novembre 2003, n. 17047).

I due rimedi, pur essendo cumulabili, non possono condurre ad un ingiustificato arricchimento patrimoniale del danneggiato: sarà necessario operare uno scomputo di quanto eventualmente già incassato a titolo di risarcimento, ovvero di indennizzo; sebbene abbiano titolo giuridico diverso è doveroso tenere in considerazione il cd. principio della compensatio lucri cum damno, secondo cui l’indennizzo dev’essere scomputato interamente dagli importi liquidabili a titolo di risarcimento del danno (Cass. Civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 584).

Ebbene, con la recente sentenza della Corte Costituzionale la numero 268 del 2017 si conferma  l’estensione dell’ambito applicativo della L. 210/92 anche nei confronti dei soggetti che abbiano subito lesioni od infermità per essere stati sottoposti a vaccini non obbligatori, purché incentivati dallo Stato. In quanto, secondo la sentenza richiamata, “sarebbe ingiusto consentire che siano i singoli danneggiati a sopportare il costo del beneficio anche collettivo”.

 

“Ad oggi, però, prima ancora che la campagna di vaccinazione anti COVID19 assuma dimensioni significative in Italia, così come nel resto del mondo, si profilano già all’orizzonte possibili contenziosi  legali contro le aziende produttrici, contro lo Stato e contro gli stessi “ex eroi” che somministrano i vaccini.”

Si commenta infatti il modulo di consenso elaborato da Pfizer-Biontech  che, secondo alcuni, contiene  una eccessiva esenzione da responsabilità in favore dell’azienda produttrice del vaccino e il personale sanitario che lo somministra.

Si pongono all’attenzione in particolare quattro punti: «Il vaccino potrebbe non proteggere completamente tutti coloro che lo ricevono (pag. 9) (…) Il vaccino può causare reazioni avverse  (pag. 10) (…) L’elenco di reazioni avverse sovraesposto non è esaustivo di tutti i possibili effetti indesiderati che potrebbero manifestarsi durante l’assunzione del vaccino Pfizer (pag. 11) (…) Non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza (pag. 11)».

In vero già la lettura dei bugiardini di alcuni farmaci da banco di largo consumo anche senza prescrizione medica, recano chilometrici effetti collaterali e controindicazioni, facendo capire la pretestuosità e la pericolosità di alcune posizioni.

Se è vero che le aziende che producono i vaccini, già sostenute dal finanziamento pubblico e forti degli enormi profitti ricavati da un bisogno di salute mondiale, non possono sfuggire dalle proprie responsabilità, l’emergenza non gli può certo concedere di esporre le persone a rischi inaccettabili, seppure oggi non del tutto prevedibili a causa della brevità della sperimentazione.

Dal canto loro gli Stati hanno nello stesso tempo l’obbligo di tutelare la salute pubblica anche dai rischi legati alla assunzione di farmaci regolarmente immessi sul mercato e prescritti, e nello stesso tempo non potranno  limitarsi di consigliare alla gente il vaccino contro COVID 19, soprattutto in particolari settori lavorativi. Tuttavia, rendendo obbligatoria la profilassi vaccinale, dovrebbero, a mio avviso, assumersi le proprie responsabilità per effetti collaterali oggi non prevedibili,  come già fa ad esempio con  la Legge 210/92 che prevede un riconoscimento economico a favore di persone danneggiate irreversibilmente da complicazioni insorte a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni di  sangue ed emoderivati.

Una responsabilità da condividere con le aziende che producono i vaccini, prime a dover rispondere  di errori di progettazione evitabili in base alle attuali conoscenze scientifiche nelle discipline coinvolte, dei conseguenti effetti collaterali prevedibili ma anche della eventuale  non adeguata informazione agli utenti”.

  1. L’analisi di Raffaele Guariniello: “Chi non si vaccina può essere licenziato”

Raffaele Guariniello chiarisce che “tutelare la salute significa vaccinare il maggior numero possibile di persone” (intervista a Il Fatto Quotidiano de 24.12.2020).  Raffaele Guariniello precisa che “non è un’indicazione ‘morale’, è ciò che prevede la legge. Il principio per cui nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizione di legge è previsto dalla Costituzione. L’art. 279 del Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro impone al datore di lavoro di mettere a disposizione ‘vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico, da somministrare a cura del medico competente’. Il Covid-19 rientra tra gli agenti biologici, peraltro compreso nel gruppo dei più insidiosi, come stabilito da due decreti legge che hanno recepito una direttiva europea. Quindi, a norma di legge, essendo – come speriamo tutti – ora a disposizione un vaccino per il Covid (l’agente biologico), il datore di lavoro è tenuto a mettere ‘a disposizione’ vaccini efficaci. Stiamo parlando di milioni e milioni di persone, dipendenti (e non) privati e pubblici”.

Se è vero che la legge dice ‘mettere a disposizione’ – precisa Guariniello – e dunque non obbliga nessuno a vaccinarsi, è anche “vero che la stessa norma impone al datore di lavoro ‘l’allontanamento temporaneo del lavoratore’ in caso di inidoneità alla mansione ‘su indicazione del medico competente’. E come può il medico non esprimere un giudizio di inidoneità se il datore di lavoro, proprio su parere del medico competente, ha messo a disposizione il vaccino, poi rifiutato dal lavoratore? La sorveglianza sanitaria non serve solo a tutelare il singolo lavoratore, ma anche tutti gli altri. La Corte Costituzionale lo ha ribadito più volte: la tutela della salute è un diritto dell’individuo e un interesse della collettività. La legge prevede l’obbligo di allontanare il lavoratore e di adibirlo ad altra mansione, ma solo ‘ove possibile’. La Cassazione ritiene che tale obbligo di ‘repechage’ (ripescaggio) non può ritenersi violato quando la ricollocazione del lavoratore in azienda non è compatibile con l’assetto organizzativo stabilito dall’azienda stessa. Insomma, il datore di lavoro è obbligato a predisporre misure organizzative per tutelare il lavoro, ma se questo non è possibile si rischia la rescissione del rapporto di lavoro”.

Il rifiuto della vaccinazione può essere dunque giusta causa di licenziamento?  “Lo stato di emergenza non consente i licenziamenti, il lavoratore fragile ha diritto allo smart working. Ma in futuro il problema potrebbe presentarsi. Qualcuno potrebbe lamentare la violazione della libertà personale di non sottoporsi al vaccino. Potrebbe sì, ma per avere ragione dovrebbe prima cambiare la legge. Altrimenti la normativa è chiara nel prevedere la messa a disposizione del vaccino, l’allontanamento e la destinazione ad altra mansione ‘ove possibile’ del lavoratore che si rifiuti inidoneo”.

L’avvocato Maria Grazia Cavallo, legale di riferimento di alcune Rsa piemontesi per le questioni Covid ha, nello stesso senso, chiarito che il personale delle Rsa che non dovesse sottoporsi al vaccino contro il Covid dovrebbe essere trasferito dal datore di lavoro a mansioni “che siano prudentemente distanziate dagli ospiti e tali da non generare contatti rischi di contaminazione”. Se questo non fosse possibile “i lavoratori sarebbero da considerare inidonei alle mansioni di assistenza agli anziani”.

Rolando Dubini <rolando.dubini@gmail.com> Allegati gio 4 feb, 11:46 (1 giorno fa) a me  Rifiuto da parte del lavoratore di sottoporsi a trattamento vaccinale: conseguenze 25 giugno 2019 – AREA LAVORO Confartigianato  Il rifiuto da parte del lavoratore di sottoporsi ad un trattamento vaccinale, può verificarsi in due diversi contesti: – la vaccinazione è obbligatoria per quella categoria lavorativa, cioè è imposta da un preciso riferimento legislativo, – la vaccinazione non è codificata da una norma di riferimento, ma rappresenta uno strumento di prevenzione efficace del rischio infettivo previsto dalla valutazione dei rischi e dal protocollo sanitario.  Cosa dice la giurisprudenza?  L’art.2087  del Codice Civile  prevede che “l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.  La vaccinazione è un atto tipicamente medico, in ambito di sicurezza del lavoro e non può che essere interpretato a tutti gli effetti, alla luce del D.Lgs 81/2008 ma anche e soprattutto dell’art.2087 c.c.  come una delle misure di protezione necessarie per la tutela della salute dei lavoratori che il datore di lavoro è tenuto ad adottare secondo:   – principio della massima sicurezza tecnicamente fattibile, – principio di sussidiarietà in materia antinfortunistica. La Sentenza della Cassazione penale, Sez. III,21 gennaio 2005, n. 1728 chiarisce che “Poiché il diritto alla salute ha natura indisponibile, il lavoratore non può rifiutare le vaccinazioni purché ciò sia previsto dalla legge (Art. 32 Cost.: nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge).  Per la Cassazione penale, Sez. IV, 5 febbraio 1991, n.1170 “le misure di sicurezza vanno attuate dal datore di lavoro anche contro la volontà del lavoratore”.  Il rifiuto del lavoratore a sottoporsi alla vaccinazione ha quindi un rilievo penale in relazione a quanto prevede l’art. 20 del D.Lgs81/2008. Il controllo dell’obbligo vaccinale è la verifica del possesso di un requisito che è a carico del datore di lavoro.  Il controllo dell’avvenuta immunizzazione spetta al medico competente.  Nel caso, spetta poi al medico competente valutare se il rischio infettivo può essere ridotto con misure di protezione alternative e di eguale efficacia:  – in caso positivo potrà esprimere il giudizio d’idoneità alla mansione specifica: – in caso negativo dovrà formulare un giudizio d’idoneità alla mansione specifica con la limitazione (quando realizzabile) di esclusione delle operazioni che possano comportare il contatto con l’agente biologico verso il quale il lavoratore non è immune; il soggetto presenta controindicazioni alla vaccinazione: in questo caso è opportuno verificare preliminarmente se esse costituiscano effettivamente controindicazioni vere (permanenti o temporanee) alla vaccinazione; il soggetto vaccinato non risponde. Anche in questi ultimi due casi il medico del lavoro dovrà valutare se il rischio infettivo può essere ridotto con misure di protezione alternative e egualmente efficaci.  In caso positivo potrà esprimere il giudizio d’idoneità alla mansione specifica. In caso negativo dovrà formulare un giudizio d’idoneità alla mansione specifica con la limitazione (quando realizzabile) di esclusione delle operazioni che possano comportare il contatto con l’agente biologico verso il quale il lavoratore non è immune. Oggi al giudizio di idoneità espresso dal medico competente sono quindi attribuite ulteriori valenze:  – la tutela della professionalità del lavoratore interessato (in particolare nell’ambito degli operatori sanitari), – la tutela della salute dei terzi e della collettività (art. 41 comma 4 del D.Lgs81/08).

https://www.asarva.org/2019/06/medicina-del-lavoro-vaccinazioni-obblighi-e-raccomandazioni-per-le-malattie-infettive-sul-lavoro/#:~:text=III%2C21%20gennaio%202005%2C%20n,non%20per%20disposizione%20di%20legge).  Area degli allegati